L'AUTOSTOPPISTA (1)
L’uomo si ferma, alza la testa, mette una
mano alla fronte, per proteggersi dalla luce, inspira: il sole è allo zenit,
sarà poco più di mezzogiorno, mormora tra sé. Sospira. Riprende il cammino.
Il suo passo è svelto, come quello di chi è
abituato a camminare molto, o di chi ha da percorrere molta strada prima di
raggiungere la meta. È in marcia da tempo. La meta è lontana.
Sente il rumore di un autocarro che si
avvicina; l’uomo è bravo a riconoscere i veicoli dal suono dei motori. Non
tende il braccio con il pollice alzato come abitualmente fanno gli
autostoppisti, spera nella bontà altrui. È fortunato: l’autocarro si ferma.
L’uomo corre. Sale sul bestione e prende
posto a fianco al guidatore:
«Grazie per essersi fermato e buongiorno!»
«Le è successo qualcosa all’auto?»
«No, in verità non guido.»
«Buon per lei, così non ha costi inutili.»
«Non è questioni di economia, mi piace
camminare e conoscere persone come lei.»
«Dove deve andare?»
«Vado a Berna.»
«Beh, che le piace camminare sono affari
suoi, ma se vuole veramente arrivare fino in Svizzera a piedi deve essere un
tipo proprio curioso. Per quanto mi riguarda, non ritengo la mia vita
abbastanza interessante per gli altri. Sono un autotrasportatore.»
«Mi permetta di dissentire. Tutti i giorni
incontriamo persone perché costretti da lavoro, obblighi istituzionali e
familiari. Riceviamo talvolta atti di simpatia, stima, riconoscenza, ma non
tutti sono dettati da sincerità, chi li fa, molto spesso, è condizionato da convenienza,
educazione, formalismo. Lei non era condizionato da niente, si è fermato perché
in quel momento ha pensato che un uomo, sconosciuto, avesse bisogno d’aiuto,
questo le fa onore, ed io sono felice di conoscere persone come lei.»
«Se la vuole sapere tutta, non mi sono
fermato ad aiutarla perché sono un buono. Tra noi camionisti vige una legge non
scritta di solidarietà, spesso chi fa questo lavoro, per un motivo o per un altro,
è costretto a chiedere soccorso, se lo facessimo, chiedendolo ad una ditta
preposta, non basterebbero i soldi del trasporto per pagarla, così ci aiutiamo tra
di noi.»
«Vero, ma io non sono un camionista con il
mezzo in panne, e lei mi ha aiutato lo stesso.»
«Sa com’è, ci si prende l’abitudine a
fermarsi quando qualcuno è in difficoltà.»
«Pensi un po’ come tutto sarebbe più bello,
se facessimo valere sempre le nostre buone abitudini.»
«In che senso scusi?»
«Pensi un po’ se davanti a un qualsiasi
sportello l’impiegato ci accogliesse con un sorriso, e con solerzia espletasse
la tua pratica…»
«Scusi sa, non capisco cosa c’entra
l’abitudine con questo.»
«C’entra, perché anche l’impiegato a sua
volta ha da chiedere sempre qualcosa a qualcuno, se prendessimo questa buona abitudine,
non ci sarebbero scontenti davanti agli sportelli, né dietro agli sportelli, e questo
dovrebbe valere sempre nella vita sociale: se ci abituassimo tutti al concetto
di solidarietà, proprio come lei, ciò renderebbe la vita più semplice, non le
pare?»
«Mi piacerebbe, caro lei, ma non c’è legge
che imponga ad un impiegato a sorridere se gli ballano i maroni, né a chiunque
altro.»
«Ma non è stato proprio lei a dirmi, poco fa,
che si ferma per una legge non scritta di solidarietà tra camionisti, e che
questa poi è diventata un’abitudine?»
(SEGUE)
(SEGUE)
Commenti