HOMO SICARIUS

Se guardi il mondo e i tuoi simili con un occhio solo, ti privi di conoscere cos'è la vita!


Se mi chiedessero quant'è che ho cominciato, dovrei rispondere, da sempre. Certo non sono nato assassino, lo sono diventato, non ho avuto scelta. Nessuno me la consigliato né indotto, ci sono arrivato di conseguenza, sono state le frustrazioni, la rabbia accumulata e repressa.
Non ho avuto un’infanzia, sono passato dalla pubertà alla maggiore età senza che mi accorgessi, cos'era essere bambino, fanciullo, giovane. Queste parole mi sono state estranee, rubate. Chi si rivolgeva a me, non mi chiamava mai per nome, diceva semplicemente, strunzì levat’ a’lloco,fat’ chiù’la. Fino all’età di sei anni, avevo una madre, un nonno, fino a quando ha vissuto lui, mio nonno, era lui che frenava le ire di mio padre. Non perché era più forte o perché il figlio, cioè mio padre, lo rispettasse. Era la pensione di guerra del nonno, obolo dello stato italiano per la perdita di una gamba, causa una granata nella prima guerra mondiale. Era a lei che mio padre cui portava riverenza, senza, avevamo poco da sbarcare il lunario, perché quel poco che guadagnava mio padre al porto, quando c’era da scaricare qualche carico dalle navi, se lo beveva con gli amici.  Poi una notte il cuore del nonno non ha retto. Abitavamo ai Quartieri Spagnoli a Napoli, per chi conosce la città, sa quanta poco distante c’è tra porto e le prime abitazioni dei Quartieri, il nostro palazzo era tra questi. Tra il 1942/43, le navi all'attracco del porto erano il bersaglio preferito degli aerei alleati anglo/americani. In una di queste incursioni, una bomba rase al suolo il palazzo vicino al nostro, polverizzando lui e fermò per sempre il cuore di mio nonno, per la seconda volta non  bastò una gamba, l’obolo alla guerra pretese tutto.
Finito lui, ebbe fine anche la pensione del nonno, con lei anche il nostro mantenimento, che in qualche modo ci aveva protetti dall'ira di mio padre, quando rincasava la sera di solito ubriaco. A quel punto era rimasta mia madre, era lei che faceva da parafulmine alle scariche di violenza del marito. Con la perdita la prebenda del nonno mio padre divenne ancora più cattivo. Bastava un niente per farlo diventare una bestia. Quei pochi soldi che lui guadagnava facendo il facchino abusivo nel porto di Napoli, se ne andavano in vino e puttane. La sera al ritorno a casa qualsiasi cosa trovasse per cena non gli andava bene, o forse era una scusa per prendere a calci e pugni quella poverina indifesa di mia madre.
Sei mesi dopo la dipartita del nonno, era la mattina del mio sesto compleanno, al risveglio mia madre era ancora al mio fianco nel letto. Trovai la cosa strana, di solito lei già era in giro a far pulizie per casa, quando non trovava farle in qualche casa di signori. Era con quello che noi due sopravvivevamo, con i pochi soldi che lei guadagnava.
Mi sembrò insolito, non potevo capire che non si sarebbe più svegliata, ranicchiandomi a suo fianco trovai strano che il corpo fosse così freddo, quella figura che nei pochi anni della mia vita, mi aveva dato, alla bisogna e a suo modo, calore e affetto.
Da subito, addebitai a mio padre la sua morte .
Senza sapere se fossero state le botte della sera prima, o il lento e susseguirsi maltrattamenti di ogni giorno. Per noi due, per me e il marito, mia madre trovava sempre come preparare qualcosa da mangiare, lei quasi mai sedeva a tavola con noi, piluccava qualche cosa in cucina o quello lasciato dal marito. Lui spesso la sera prima di crollare riusciva appena arrivare alla sponda del letto.
Con la morte di mamma diventai io il parafulmine delle violenze di mio padre. Per questo meno stavo in casa, meno botte subivo. Anche perché se non trovavo come mettere insieme qualcosa da mangiare avrei fatto la stessa fine di mia madre.
Per questo a sei anni giravo per i Quartieri Spagnoli di Napoli, rubacchiando, quando c’era da rubare, perché a quei tempi da rubare c’era ben poco. Una mela al fruttivendolo era il massimo, perché di scatolette di tonno o di carne dal salumaio era da escludere, quelle, quando c’erano, erano ben protette qualche pacchetto di biscotti poi era un sogno. Spesso mi chiedevo se mai avrei assaporato più tali leccornie.
Forse conoscendo il mio stato e le loro possibilità diverse, mi avrebbero elargito qualcosa? Forse mi piaceva pensare che in fondo non tutti fossero come mio padre. Oppure cercavo l’elemosina in via Roma, o nella Galleria Principe Umberto. Tutto facevo, anche rubare i ceri nelle chiese della zona: San Matteo, Santa Francesca o a S. Brigida. Dentro una chiesa li rubavo, fuori l’altra li vendevo, a volte arrivavo fino al cimitero a Poggioreale per venderli.
Ricavavo i migliori guadagni, quando Napoli non subiva bombardamenti da parte degli alleati angloamericani. Nella Galleria Umberto I il Salone Margherita dava spettacoli di varietà. All’uscita di mezzanotte molti signori vedendo un bambino infreddolito s’intenerivano e sganciavano dei bei soldini. Una notte una signora mise nel mio palmo di mano, per poi chiuderla intorno a una bella e nuova due lire.
Per giorni l’ho guardata senza spenderla, era come osservare un tesoro tutto mio.
   
Purtroppo dovevo pur dormire, e in quella fase che lui, mio padre, aveva opportunità di riempirmi di botte, diceva che ero un figlio ingrato, incolpandomi di non avergli preparato la cena. Senza mai chiedersi dove e come potevo, se lui non mi dava mai un centesimo.
Nella prossimità di compiere i miei primi dieci anni, decisi che fosse arrivata l’ora di farla finita, no, non volevo suicidarmi era bel lungi da me questo pensiero, chi doveva morire non ero io.
Vivere per strada, in special modo, sui Quartieri Spagnoli o per il Pallonetto di S. Lucia, e sopravvivere in tempo di guerra, significa aver superato l’ostacolo più difficile, le esperienze più ingrate per un bambino solo e senza protezione.
Una sera dopo aver ricevuto la quotidiana razione di botte, non  aspettai molto prima che il russare dell’ubriacone  mi rassicurasse che lui dormiva.
Scesi dal letto andai in bagno presi il rasoio, eredità lasciata dal nonno a mio padre, e con quello gli tagliai la gola, mettendo fine al suo russare e alla sua miserabile vita.

Per ironia della sorte era stato lui indicarmi l’efficacia del rasoio nel tagliare la gola a un uomo. Mi piaceva osservarlo mentre la mattina si radeva, un giorno che, la sua vena, di colloquiare era all’optimum, mi disse.

“Gennarì, lo vedi questo, è così tagliente che può tagliare la gola a un uomo senza che lui se ne accorga, muore asfissiato in pochi secondi.” 
Dopo che ebbi spiegazione, maggior mente il Rasoi calamitò la mia attenzione, fu come mi avesse stregato. Dopo di quello, non ci fu giorno che non assistessi alla rasatura di mio padre.
Mentre ero solo in casa, imparai a maneggiarlo, lo aprivo e lo chiudevo con destrezza, come fosse un prolungamento del mio braccio. Come un arnese da sempre posseduto, o forse era lui che, ormai, mi possedeva.
Aveva avuto ragione, a farne le spese fu proprio lui. Quella sera tornò a casa più ubriaco del solito. Prima mi riempì di botte poi cerco di sodomizzarmi, non ci riuscì solo perché era troppo ubriaco. Mi resi conto che la prossima, meno ubriaco, poteva riuscirci. Fu, come si usa dire, la goccia che fece traboccare il vaso. Mi decisi a mettere in prova l’affilatura del rasoio. Morì, credo come aveva previsto lui, in più anestetizzato dall’alcool che aveva in corpo. Non si svegliò, non sentì dolore, in pochi secondi il cervello non ricevendo più sangue e ossigeno si spense come il moccolo di un cero, mettendo fine alla sua vita da ubriacone e alle mie sofferenze terrene.
Era il 10 marzo del 43.

Sfortuna volle, la mattina un suo compagno di bisbocce lo venne a chiamare per l’arrivo di una nave in porto da scaricare. Mi trovò ai piedi del letto con le mani e il viso insanguinato, fissavo mio padre stecchito nel letto.  La sera stessa mi ritrovai a dormire sul tavolaccio di una cella  del carcere minorile di Napoli, il Filangieri.
L’Italia era in guerra contro il resto del mondo, la legge non aveva tempo da perdere con uno scazzuppulillo di nemmeno dieci anni.
Non chiesero nemmeno, dove avesse preso l’arma, e dove l’avesse nascosta, tanto fu la fretta di chiudere l’increscioso dramma. Ben presto mi accorsi che il cambio di locazione non mi aveva apportato nessun beneficio.
È risaputo che nella foresta vige la legge del più forte, tale sono le carceri di qualsiasi genere e tenore, non sono altro che foreste di pietra. Gli uomini perdono la consapevolezza di esseri ragionevoli. Prevale l’istinto animale acquattato, da millenni, nelle nostre menti. Questo, più che spesso, vale anche per i secondini e i dirigenti. A Napoli si usa dire, forse anche nel resto del mondo: chi pratica lo zoppo impara a zoppicare.
I ragazzi più grandi prevaricavano i più piccoli, facevano valere la loro forza, ed io non potevo esimermi di appartenere alla catena più debole, almeno così credevano gli altri vedendomi piccolo e denutrito. C’era un ragazzo più grande, in particolare, che non entrava per niente nelle mie simpatie. Spesso nell'incontrarmi in cortile per il poco tempo concesso per la ricreazione, dopo aver scontato sei mesi di segregazioni in una putrida cella con un tavolaccio per letto e un secchio puzzolente per i miei bisogni corporali, mi mostrava il cazzo suggerendomi di fargli un bocchino, per i non addetti, un pompino. Non passo molto tempo prima che decidessi, dovevo porre rimedio a questa incresciosa situazione.
Una mattina mi apprestai ad affrontare il maniaco, lui come al solito, mi fece la solita offerta mostrandomi il suo cazzo ritto pronto alla bisogna. Mi avvicinai guardando voglioso il suo cazzo, quando lo presi in mano, s’indurì ancor di più, lo guardai negli occhi aprendo leggermente la bocca, cosa che fece anche lui per empatia, stava assaporando il piacere che poteva venirgli dopo, pensando quando l’avrei preso in bocca.
 Mi basto poco, con un colpo netto glielo tagliai e allo stesso tempo ficcandoglielo in bocca. Poi gli diedi un consiglio, che in quell’occasione trovai fosse più che appropriato.
E mò, fattil tu’stess nu bucchino, strunzz.”
Il poveretto si rese conto di quello che era successo, solo quando tirò fuori dalla bocca quello che era stato il suo cazzo, in quel frangente ridotto a un piccolo boccone di carni sanguinolente.  Lui finì di corsa all’ospedale, io rinchiuso in una putrida cella di segregazione di due metri per uno.
Ci rimasi quanto dovuto, nel frattempo era scoppiata la rivolta contro i tedeschi.
Erano arrivate notizie dello sbarco degli americani a Salerno. L’occasione propizia che i napoletani aspettavano per buttare fuori dalla città i tedeschi.
I secondini del Filangieri si sentirono in dovere di imbracciare le armi insieme al popolo, si misero al seguito di alcuni militari passati alla resistenza contro i tedeschi. Il direttore del carcere poco poté fare quando una mandria di scalmanati ragazzi, amici dei carcerati, insieme alle madri dei detenuti si presentarono fuori i cancelli a reclamare la liberazione dei piccoli delinquenti, a chiedere l’incolumità per i propri figli, pensavano a giusta ragione, che le bombe non conoscessero clemenza, i ragazzi non avevano nessuna opportunità d’uscirne illesi, se una bomba avesse centrato il carcere mentre loro erano ancora dentro.
Il direttore si vide costretto ad aprire le celle e dare la libertà a tutti. Anche perché, alcuni di quelli fuori, erano riusciti a entrare chissà come e aprire le celle dei detenuti.
Una volta fuori tutti a correre dietro il capobanda, quello che gli altri ritenevano fosse tale, il più grande di età e di forza, un delinquente incallito già all'età di quindici anni. 
Non appena ci fermammo mi trovai attorniato da un branco di ragazzi di tutte le età, armati di tutto quello che era possibile.  Ero stato liberato dalla segregazione ed era la prima volta che li vedevo da allora, per cui fu normale mi chiedessero come, e
con, che cosa avevo compiuto l’azione del taglio quel giorno, giacché la mia manovra era stata breve e lesta, senza dare nessuna opportunità a chicchessia di poter vedere con che cosa l’avessi fatto.
Una domanda sorse spontanea sulla bocca di tutti, ero al centro dell’attenzione, sguardi vogliosi di sapere puntati su di me.
“Gennarì com’e fatt a taglià o cazzo a Totor e’Margillin.”
Mi calai pantaloncini e mutante facendo vedere come e dove avevo nascosto la mia preziosa arma, tirandola fuori dal buco del culo, dove il Rasoio era sempre stato, avvolto in un preservativo, ereditato l’uno e l’altro da mio padre, come lui a sua volta dal suo. E dopo la sua precoce morte, definitivamente in mio possesso.
Un ragazzo più grande di me, cercò di levarmelo, io più lesto di lui l’avevo già spianato pronto a tagliargli la gola. Mentre lui si bloccava dalla paura vedendo la lama brillare, gli sopraggiunse un consiglio dal primo ragazzo, quello che mi aveva chiesto dove l’avessi nascosto, il capo per intenderci.
“Viciè, lascià sta, o’ uaglione nun è pane pe rient tuoi.”
Il ragazzo non seppe mai, ne poteva immaginare, quando la morte gli fosse passata vicino. Non fu così per molti tedeschi, non mi curai di contare quanti caddero vittime del mio rasoio. Molti di essi sorpresi nel sonno dalla stanchezza. Altri dalla loro ingenuità di fidarsi dall’aspetto bambino abbandonato.
La morte oramai faceva parte del quotidiano, mi era indifferente, forse perché non avevo paura di morire. Ecco cosa mi ha indotto a essere quello che sono, l’insensibilità al dolore e la paura di morire.


Nei quattro giorni della rivolta del popolo napoletano, appresi che morire era una cosa normale. Nessuno pensa, quando uccide, che in quel momento, non poni fine solo a un essere umano, ma a un intero mondo che lui rappresenterà in futuro. Nel processo evolutivo che avrebbe avuto lui e la sua famiglia i suoi figli, i figli dei figli e i figli…
Uccidere significa spezzare una catena creativa infinita. Nell'istante della morte di un uomo, e come se un mondo si fermasse per sempre, per noi sembra un attimo, per la creazione sono secoli di vita.
Rapportandoci alla nostra vita, ognuno crede di essere unico e immortale nel suo mondo. Perché non pensiamo alla morte, lei non ci appartiene, la nostra mente è proiettata verso il futuro, verso un mondo immaginario, anche se al momento è inesistente .
Sono queste le riflessioni che faccio ora, a ottanta anni, seduto in riva a un fiume. No, non aspetto che passi il cadavere del mio nemico, ma il mio. Non ho avuto nemici nella mia vita, tranne me stesso. Questa reminiscenza tardiva, confessione al mio Io,dopo una vita di morte, è dettata, da non credersi, dalla vita. Sì, dalla vita di due giovani, forse inconsapevoli, innamorati. Due vite che avrebbero dato corso a un mondo nuovo. In quel momento ero io il loro onnipotente, decidere se spezzarle dando loro la morte. In un rigurgito di sentimento affiorato con ritardo nell’animo, ho creduto di essere andato già oltre ad ogni perversione umana e che era ora di dire basta.  Credo di aver fatto molto danno, ho fermato il tempo alla creazione di tante altre famiglie, togliendo molte vite umane da questo mondo. Sola ora, mi accorgo quanta è stato inutile e dannoso la mia vita, il mio mondo, se mai ne ho avuto uno.

Ero stato chiamato dal mio solito committente, l’ordine era: mettere fuori gioco per sempre chi aveva fatto torto alla famiglia di Giuseppe Polveri, un avvocato e un capitano dei carabinieri. Forse se non lì avessi visto in quel ristorante seduti a cenare e conversare, in verità mi è sembrato che la cena fosse un pretesto per stare insieme, visto cosa come mangiavano.
Lei era l’avvocato, bellissima, lui il capitano, non da meno. Il loro sguardo era fisso l’uno nell'altro, come solo due innamorati possono avere.
Non ho mai trasgredito a una commissione del mio committente, ero consapevole a cosa andavo incontro.
La commissione era di rapportarmi dalla famiglia Polveri, precisamente dal figlio secondogenito, dato che il primo e il padre, erano entrambi in galera proprio da un’azione investigativa del capitano che doveva morire. L’avvocato invece, pur essendo la nipote del Polveri, era stata condannata a morte per aver collaborato al loro arresto. Cosa che ho scoperto non vera, forse la ragazza già non era ben vista dalla famiglia per qualche precedente non affine ai lori intendi.
Li avevo studiati bene, di solito non lo facevo. Avuto l’ordine eseguivo e poi sparivo com'ero comparso sulla scena. Ho avuto incarichi in diverse parti del mondo, non mi sono mai posto problemi di coscienza, perché non credo di averla, cercare il vero motivo perché ora me lo pongo non saprei rispondere. Forse l’età? Con la vecchiaia si diventa più buoni? Non lo so! Ho forse invecchiando si ha meno coraggio per certe azioni?
Per fare in modo che in seguito non ci fosse un altro al mio posto, ho tagliato la gola al mandatario, cioè il secondogenito dei Polveri, con la mia scomparsa si penserà,che il contrordine di far fuori il Polveri, è stata una decisione presa ad alto livello.
Non so se e quando, verrà fuori la verità di questo mio ultimo atto, mi piace pensare che i due giovani avranno lunga vita. In questo modo non ho motivo di rammaricarmi se nella vita il mio processo evolutivo della mia stirpe si è fermato con me. Il  mio castigo è che il mio mondo finisce con me, ed è bene che sia così!
L’ultimo gesto di Gennaro Capuano fu di tagliarsi la gola, con lo stesso rasoio che l’era servito a mietere le sue innumerevoli vittime in settant'anni. Si lasciò andare in acqua, la mano stretta intorno alla sua arma. Come avesse voluto dire: non lascio alcuna eredità, tanto meno lui, il mio rasoio!


P.S. Per ironia della sorte, Gennaro Capuano non saprà mai che sua madre, chiamandosi Mira Di Nazaretti, fosse una lontano parente dei due giovani cui lui doveva togliere la vita. Senza volere l’assassino salvando i due giovani ha dato seguito al processo evolutivo di un ramo della sua dinastia.
  

    
 prossimo episodio Homo Fugitivus




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